IL RAPPORTO ROMANO PONTEFICE – PATRIARCA

LE  "NOVITA"  DEL  "CODEX  CANONUM  ECCLESIARUM  ORIENTALIUM" A  PROPOSITO  DEL  PRIMATO  ROMANO  (IL  RAPPORTO  ROMANO PONTEFICE – PATRIARCA)

 

Introduzione

 

          Il Concilio Vaticano II, fin dalle prime righe della Costituzione dogmatica Lumen Gentium, ci apre alla riflessione sulla dimensione più profonda della realtà Chiesa, aprendoci alla dimensione del mistero. La Chiesa è un mistero; di più, la Chiesa è un mistero di comunione: «Ecclesia […] in Christo veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis […]» (LG 1). «Il mistero della Chiesa si spiega solo alla luce della Trinità. Cristo ci fa intravedere il metodo per entrare nel mistero della Chiesa quando contempla nel più interiore movimento trinitario, "Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch\’essi in noi una sola cosa" (Gv 17,21): essenza del mistero ecclesiale, proiezione esteriore delle relazioni intratinitarie»[1]. Il principio primo dell\’unità e unicità della Chiesa si trova quindi nell\’unità e unicità di Dio; e il Concilio conclude: «Sic apparet universa Ecclesia sicuti "de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata» (LG 4).

 

          Ekklesia significa assemblea convocata, convocazione. La Chiesa è quindi una chiamata di Dio alla comunione, con Lui e con gli altri, che si realizza lì dove l\’uomo risponde. La sua unità quindi deriva da questa risposta comune a partecipare alla stessa vita, agli stessi beni spirituali, alla stessa fede, allo stesso Vangelo, agli stessi sacramenti. Si comprende come comunione della Chiesa sia qualcosa di più che semplice "sentimento", come la Nota Esplicativa Previa alla LG ricorda: «Non intelligitur autem de vago quodam affectu, sed de realitate organica, quae iuridicam formam exigit et simul caritate animatur» (NEP 2). Ciò significa che la Chiesa è una comunione di fratelli, ma una comunità strutturata, espressa in un ordinamento sociale, visibile, che si attua solo intorno al nucleo degli apostoli e dei loro successori. La natura dell\’unità della Chiesa si delinea nei quattro concetti: communio, collegium, caput, membra. Si comprende quindi che la comunione ecclesiale e quella gerarchica si implichino a vicenda: nella comuione dei singoli Vescovi con il Collegio, le Chiese particolari sono in comunione tra loro e con la Chiesa di Roma, il cui Vescovo, il Romano Pontefice, è, come afferma LG 18: «Perpetuum ac visibile unitatis fidei et communionis principium et fundamentum». In questo contesto ecclesiologico si inserisce l\’istituzione partiarcale, secondo la quale il Patriarca presiede ad una intera Chiesa come «pater et caput».

 

            Il nostro tema si articola nelle seguenti unità: a) Le Chiese orientali cattoliche nella Chiesa universale; b) i fondamenti ecclesiologici del CCEO; c) il Romano Pontefice nel CCEO; d) l\’istituzione patriarcale nel CCEO; e) relazioni tra il Romano Pontefice  e il Patriarca; conclusione.

 

1. Le Chiese orientali cattoliche nella Chiesa universale

 

          Il «Codex canonum Ecclesiarum orientalium», promulgato il 18 ottobre 1990, ed entrato  in vigore dal 1 ottobre 1991, intende adempiere le aspirazioni del Vaticano II,  nella linea della rinnovata ecclesiologia conciliare: Chiesa mistero di comunione. Il concetto della Ecclesia universalis  e la varietas Ecclesiarum, con esplicito riferimento alle Chiese patriarcali, viene descritto dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa, LG 23d :

 

          «Per divina provvidenza è avvenuto che varie chiese, in vari   luoghi fondate dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli   si sono costituite in molti gruppi, organicamente congiunti, i quali, salva restando l\’unità  della fede e l\’unica   divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio   teologico e spirituale proprio. Alcune fra esse, soprattutto le   antiche chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno   generate altre che sono come loro  figlie, con le quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita   sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri.   Questa varietà di Chiese locali, fra loro concordi, dimostra   con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa».

 

     Questo testo di particolare indole dottrinale, proprio perché è situato nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa,  cita in nota come principali  fontes canoniche dell\’istituzione delle antiche Chiese patriarcali anzitutto i canoni 6 e 7 del primo concilio ecumenico di Nicea I (325); si tratta di una istituzione di diritto ecclesiastico riconosciuta  dai primi concili ecumenici. Il testo conciliare non attribuisce la loro origine ad una espressa volontà di Cristo, per cui non fa parte della divina costituzione della Chiesa, ma a una disposizione della divina Provvidenza, per servire la comunione ecclesiastica. Per mantenere la comunione a diversi livelli regionali, in oriente come in occidente ci si appoggia alle sedi episcopali fondate, secondo la tradizione, dagli apostoli o da uno dei loro cooperatori immediati. Questa specie di divisione in regioni territoriali  più o meno ampie non toglie niente né all\’unità della fede né alla divina costituzione fondamentale della Chiesa universale.   Il testo parla soprattutto delle antiche Chiese patriarcali senza fare un espresso riferimento all\’oriente o all\’occidente.

 

     Le varie  Chiese  cattoliche orientali, sebbene riconosciute o costituite a varie epoche dopo la rottura di comunione ecclesiastica tra i patriarcati orientali e la sede romana, devono la loro origine, la loro fede e le loro tradizioni a quelle loro matrici. Il can. 28,§2 del CCEO fa esplicito riferimento alle tradizioni Costantinopolitana, Alessandrina, Antiochena, Armena e Caldea, e nel can. 59,§2 menziona l\’ordine di precedenza tra le antiche Sedi patriarcali, cioè  in primo luogo la Sede Costantinopolitana, quella Alessandrina, poi l\’Antiochena e quindi quella Gerosolimitana.

 

          L\’unità della Chiesa universale e l\’autonomia delle varie Chiese patriarcali viene chiaramente descritta nel citato  testo conciliare della LG 23, in questi termini: «Salva restando l\’unità  della fede e l\’unica   divina costituzione della Chiesa universale, (queste Chiese orientali) godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio   teologico e spirituale proprio». Il patrimonio teologico, liturgico e spirituale  delle Chiese orientali consiste nel carattere proprio nell\’esporre, vivere e celebrare i misteri divini, mentre il patrimonio disciplinare nel diritto e dovere se regendi secondo le proprie discipline particolari.

 

           Quanto al patrimonio teologico proprio delle  Chiese orientali e della Chiesa latina, il concilio dichiara che, «nell\’indagare la verità rivelata in oriente e in occidente furono usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla proclamazione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall\’uno che non d\’altro, cosicché si può dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completino piuttosto che opporsi» (UR 17).

 

               Un altro testo ugualmente significativo  in merito è LG 13c, il quale descrive il ruolo della cattedra di Pietro nella varietas Ecclesiarum, che consiste nel presiedere alla comunione universale di carità, di tutelare le varietà legittime, e   insieme di vegliare  affinché ciò che è particolare, non solo  non   nuoccia all\’unità, ma piuttosto la serva.

 

              Il Decreto OE, nn. 3 e 5, esplicita le suddette solenni affermazioni:   Queste Chiese, sia di oriente che d\’occidente, «sebbene siano in parte tra loro differenti in ragione dei cosiddetti   riti, cioè per la liturgia, per la disciplina ecclesiastica e il patrimonio spirituale, tuttavia […]  godono di pari dignità, cosí che nessuna di  loro prevale sulle altre per ragione del rito, e godono  degli   stessi diritti e sono tenute agli stessi obblighi…».  Di conseguenza, il decreto aggiunge un principio strettamente giuridico: «Questo santo concilio […] dichiara solennemente che le Chiese d\’oriente come anche   d\’occidente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le   proprie discipline particolari, poiché si raccomandano per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro   fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime». Lo stesso principio viene confermato per le Chiese orientali ortodosse, alle quali il Concilio riconosce esplicitamente il diritto di autonomia interna, ossia il loro diritto di reggersi secondo le proprie discipline, aggiungendo la seguente osservazione e valutazione: «La perfetta osservanza di questo tradizionale principio, invero non sempre rispettata, appartiene a quelle cose che sono assolutamente richieste come previa condizione al ristabilimento dell\’unità» (UR 16).  Confrontando la suddetta dichiarazione solenne del Concilio a riguardo delle Chiese orientali ortodosse, con quella a riguardo delle Chiese cattoliche orientali, ossia quelle che sono in piena comunione con la  Sede Romana (OE 5), si può meglio comprendere il senso che il Concilio intende dare al principio del dovere e del diritto delle Chiese orientali, in genere, di reggersi secondo le proprie discipline canoniche. Questa autonomia amministrativa delle Chiese orientali, nella piena comunione, fa parte del loro patrimonio in vigore già dal tempo dell\’unione dell\’oriente e dell\’occidente.

 

               «Il diritto e dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari» presuppone una propria superiore autorità interna, ossia in materia legislativa, amministrativa e giudiziaria, salva restando la suprema autorità della Chiesa, che, secondo l\’ecclesiologia cattolica, viene esercitata dal Romano  Pontefice e dai vescovi in comunione con lui; il Collegio dei vescovi, il cui capo è il Romano Pontefice e le cui membra sono i vescovi, esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa universale nel concilio ecumenico (cf. cann. 7,§2, 49,50). Di conseguenza, «il diritto e dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari» comporta il diritto di avere la propria normativa canonica, comune e particolare. Giustamente, perciò, il can.1 del  CCEO dichiara che, «i canoni di questo Codice riguardano tutte e sole le Chiese orientali cattoliche…», mentre il can. 1 CIC afferma che, «i canoni di questo Codice riguardano la sola Chiesa latina». La duplice codificazione nell\’unica Chiesa cattolica intende significare che nell\’attuale ecclesiologia, la Chiesa latina non è più considerata sinonimo della Chiesa universale, e che non è più in vigore il principio della praestantia ritus latini, sancito da Benedetto XIV nella cost. apost. Etsi pastoralis (26 maggio 1742) e nella lettera enciclica Allatae sunt (26 giugno 1755); inoltre intende significare, oltre all\’ «aequalis praestantia omnium rituum», il nuovo status ecclesiologico e giuridico, cioè lo status sui iuris delle Chiese orientali che sono in piena  comunione con la Sede apostolica. È ovvia la portata ecumenica del fatto stesso della duplice codificazione nella prospettiva del ristabilimento dell\’unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse.

 

          Tutto ciò  significa che, la Ecclesia universa consiste nella  comunione delle varie Chiese d\’oriente e d\’occidente, soprattutto di quelle matrici della fede fondate dagli apostoli e dai loro successori, le quali si reggono secondo la propria normativa. Il decreto conciliare OE 9, trattando dell\’istituzione patriarcale, afferma che, «i Patriarchi coi loro sinodi  costituiscono la superiore istanza per qualsiasi questione, non escluso il diritto di costituire nuove eparchie e di nominare i vescovi del loro rito entro i confini del territorio partiarcale, salvo restando il diritto inalienabile del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi (in singulis casibus interveniendi)». Questo principio ecclesiologico e giuridico esprime la natura,  l\’estensione e i limiti dello stato di sui iuris delle Chiese patriarcali,  considerando – stando ai termini del testo –  che, stando ai termini del testo,  il Romano Pontefice non interviene «in omnibus casibus», bensì «in singulis casibus», cioè in casi particolari, straordinari, qualora fossero sorti nelle Chiese  dissensi circa la fede o la disciplina (UR 14). Espressa è la volontà del Vaticano II, OE 9, «che siano ripristinati i diritti  e i privilegi dei Patriarchi orientali, secondo le antiche tardizioni di ogni Chiesa e i decreti dei concili ecumenici […] che vigevano al tempo dell\’unione dell\’oriente e dell\’occidente».

 

2) Fondamenti ecclesiologici del CCEO

 

          Tenendo conto di questa ecclesiologia del Vaticano II rispetto alle Chiese orientali, ci sono stati lunghi dibattiti nella Pontificia Commissione per la revisione del Codice di diritto canonico orientale (PCCICOR), durante i quasi vent\’anni di lavoro. Tra le problematiche sollevate, specie nell\’ultima assemblea plenaria della PCCICOR (3-14 novembre 1988), prima dell\’ultima stesura del testo e la sua promulgazione, alcune presentano un particolare interesse proprio per le loro implicanze ecumeniche, come era  quella dell\’ecclesiologia del  CICO. Riassumiamo questa problematica come è stata  riportata nel  periodico Nuntia[2]: Un membro aveva  osservato che «l\’ecclesiologia dello Schema non corrisponde a quella del periodo della Chiesa indivisa. Un altro membro aveva  aggiunto che non corrisponde neanche «a quella con la quale si potrà un giorno arrivare all\’unione delle Chiese». Un terzo membro aveva  notato che «potrebbe dare ai non cattolici qualche motivo di temere la centralizzazione del potere nella Curia Romana».

 

          Il Coetus de expensione observationum della PCCICOR ha respinto queste critiche, ritenendo  che «lo Schema è in linea con l\’ecclesiologia delle Chiese orientali cattoliche, come espressa nei Concili ecumenici e, in modo particolare, nel Vaticano II…».

 

          Indubbiamente nella normativa del  CCEO le Chiese orientali cattoliche sui iuris non sono equiparate alle Chiese autocefali ortodosse, le quali, nell\’unità della fede ortodossa, si amministrano, di regola, in modo pienamente  autonomo, proprio in base alla  loro ecclesiologia prevalentamente conciliare, concepita in parte in modo diverso da quella cattolica.  L\’autonomia delle Chiese orientali cattoliche è ben relativa. Il CEEO riconosce la superiore autorità dei Patriarchi con i loro sinodi nelle proprie Chiese, ma salva sempre restando la suprema autorità della Chiesa, che secondo l\’ecclesiologia cattolica risiede nel Romano Pontefice e nel Concilio ecumenico. È proprio nel contesto di questa autonomia ben relativa che le Chiese cattoliche orientali sono Chiese sui iuris, riconosciute espressamente o tacitamente come tali dalla suprema autorità della Chiesa e governate a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa (cf. cann. 27 e 56).

 

          Questa relativa autonomia si manifesta in un ben vasto  numero di canoni, in cui si richiede il ricorso, l\’intervento o il consenso della Sede Apostolica: Sono ampie le materie  su cui la Sede Apostolica deve essere informata o consultata; in vari canoni vengono stabilite le materie riservate alla Sede Apostolica nei riguardi del funzionamento sinodale e della designazione dei Vescovi e dei capi delle Chiese orientali, nei riguardi degli istituti di vita consacrata e dello stato clericale, delle associazioni ecclesiastiche, dei territori di missione, delle università cattoliche e delle Facoltà teologiche, degli strumenti di comunicazione sociale, dell\’approvazione dei testi liturgici e della loro traduzione, in materia sacramentale, specie matrimoniale, in materia di movimento ecumenico, di soppressione delle persone giuridiche, in materia di alienazione di beni temporali, in materia giudiziaria e penale, ecc. Circa 200 volte viene menzionata la Sede Apostolica nel CCEO in questo senso. Buona parte di queste tematiche avrebbe potuto essere riservata al Patriarca, senza pregiudizio al primato romano.

 

          La stessa promulgazione del Codice comune alle Chiese orientali cattoliche è un atto legislativo di esclusiva competenza del Romano Pontefice, suprema autorità della Chiesa. Il diritto comune delle Chiese orientali è stato emaanato e promulgato dal supremo legislatore. I Patriarchi orientali sono stati membri della Commissione Pontificia per la revisione del Codice. Ciò  indica il senso e i limiti di questa autonomia delle Chiese orientali cattoliche. Infatti il problema è stato posto nell\’ultima assemblea plenaria della PCCICOR (3-14 novembre 1988). Riassumiamo questa problematica come è stata  riportata  nel  periodico Nuntia[3]:

          Un membro della PCCICOR ha fatto la seguente proposta: «Similmente ai decreti conciliari il "CICO sia firmato e promulgato dal Papa e i Capi delle Chiese orientali cattoliche sui iuris", e ciò (come specifica un altro Membro) "per significare alle Chiese orientali non unite a Roma, che questo Codice di Diritto canonico emana dai suoi capi e che non è imposto da Roma"». Il Coetus de expensione observationum ha dato in merito la seguente risposta: «La questione riguardante l\’opportunità e il modo di associare i Capi delle Chiese orientali cattoliche all\’atto di promulgazione del CICO, che non può essere esclusivamente che un "actus supremae Ecclesiae auctoritatis" dato che contiene lo "ius comune" a tutte le Chiese orientali, appartiene ad altra sede». In seguito, il suddetto Coetus afferma che «per quanto riguarda la presente Commissione si sottolinea che lo Schema del CICO è frutto della collaborazione di tutta la gerarchia orientale cattolica ed inoltre che si è convinti che ogni componente della Commissione è consapevole delle parole di Paolo VI pronunciate nell\’Allocuzione alla prima Riunione Plenaria dei Membri di essa, il 18 marzo 1974: "Viri Commissioni addicti ipsarum legum sunt ordinatores, non auctores seu factores"» (AAS 66, 1974,247). Il Coetus conclude: «Pur dovendo respingere la tesi che il CICO oltre che dal Sommo Pontefice debba "emanare" anche "dai Capi" delle Chiese patriarcali per non dare l\’impressione di essere "imposto da Roma", si nota che qualora il S.Padre lo ritenesse opportuno e per suo mandato, nella Riunione Plenaria dei Membri della Commissione potrebbe essere trattata anche la questione circa gli altri modi di associare i Capi delle Chiese orientali sui iuris all\’atto di promulgazione del CICO».

 

          Dal tenore della risposta risulta  che il Coetus de expensione observationum, pur respingendo questa proposta, non la trovò   ecclesiologicamente errata. Infatti la formula usata per la promulgazione dei documenti del Concilio Vaticano II era la seguente: «Tutte e singole le cose, stabilite in questo (decreto, costituzione, dichiarazione) sono piaciute ai Padri del sacro concilio. E noi,in virtù della potestà apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai venerabili Padri (una cum Venerabilibus patribus), nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e stabiliamo; e quanto è stato così sinodalmente stabilito (synodaliter statuta sunt), comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio». Forse questa formula, usata per i documenti di un concilio ecumenico, esprimendo l\’intimo legame tra primato e sinodalità, avrebbe potuto  essere usata per analogia anche per la promulgazione del CCEO, senza che ciò potesse contrariare la dottrina sul primato del Romano Pontefice. Questa tesi è rinforzata anche dalla  stessa cost. apostolica Sacri canones, secondo la quale «i Patriarchi e i sinodi sono partecipi, per diritto canonico, della suprema autorità della Chiesa» (Patriarchae et synodi iure canonico supremae ecclesiae auctoritatis participes sunt».

 

3. Il primato romano nel "Codice dei canoni delle Chiese orientali"

 

          Un\’altra problematica sollevata nella Commissione fu circa i canoni del Titolo III del CCEO sulla suprema autorità della Chiesa. Il periodico Nuntia[4] riassume il dibattito in questi termini:

 

          Un membro ha osservato che «questi canoni di speciale importanza ecumenica perché riguardano "il rapporto fra il Papa e le Chiese orientali", potrebbero essere riformulati"». E un altro membro ha aggiunto che questa riformulazione dovrebbe essere «secondo l\’ecclesiologia e l\’esperienza vissuta nel periodo della Chiesa indivisa».

 

           Il Coetus de expensione observationum ha dato in merito la seguente risposta: «Nel tentativo di riformulare i canoni "De suprema Ecclesiae auctoritate" in modo "più conforme alla tradizione orientale" non ci si deve scostare dalla ecclesiologia del Concilio Vaticano II, formulando questi canoni sulla base di quanto è contenuto nel progetto proposto e cioè che "Patriarchae atque Archiepiscopi Maiores una cum Episcopo Romano iuribus et privilegiis singularibus instruuntur atque peculiare Collegium constituunt quo symphonia inter Ecclesias servatur". Si tratta di prospettive che esulano dalle competenze della Commissione, la quale deve rivedere il Codice alla luce della ecclesiologia del Vaticano II. Nei singoli canoni proposti, prescindendo da altri dettagli, si propugna una ecclesiologia che non è quella del Vaticano II e pertanto essi nel loro insieme non sono accettabili»[5].

 

           Riteniamo che, a prescindere dai singoli canoni proposti, di cui non conosciamo la stesura, l\’idea di fondo della proposta intendeva, forse, sottolineare un principio del Vaticano II, UR 17, circa «la legittima diversità» anche nel campo «della diversa enunciazione delle dottrine teologiche». È legittima la diversità delle formule teologiche e canoniche nell\’esporre la fede.Sicuramente la proposta di riformulare i canoni circa la suprema autorità della Chiesa non intendeva in nessun modo deviare dalla dottrina del Vaticano II sul primato del Romano Pontefice, che per volontà di Cristo succede al beato Pietro nel primato sulla Chiesa universale, ma intendeva sottolineare anche quegli aspetti della tradizione patristica e conciliare dei primi secoli circa la «principalitas» e la funzione della Chiesa apostolica di Roma e del suo Vescovo nella comunione universale delle Chiese d\’Oriente e d\’Occidente nella linea e nell\’esperienza della Chiesa antica, unite nella fede e della vita sacramentale.

 

4.  L\’istituzione patriarcale nel CCEO.

 

a) Il Romano Pontefice può essere considerato come Patriarca d\’occidente?

 

          Il CCEO non tratta di questo argomento, ma  dei Patriarchi delle Chiese orientali cattoliche.  Il CIC, can. 438, parla dei Patriarchi latini in questi termini: «Il titolo di Patriarca e di Primate, al di là di una prerogativa di onore, non comporta nella Chiesa latina alcuna potestà di governo, a meno che per qualcuno di essi non consti diversamente per un privilegio apostolico o per una consuetudine approvata». Commentando il canone, il prof. G.Ghirlanda, dell\’università Gregoriana,  osserva che, «nella Chiesa latina il Vescovo di Roma è il solo Patriarca che gode di potestà patriarcale su tutti gli altri vescovi di rito latino; gli altri Patriarchi, come quelli di Lisbona, Goa, Venezia, non hanno alcuna potestà»[6]. Y.Congar, considera come «une réalité trop négligée» quella del Papa come Patriarca d\’occidente[7].

           L\’istituzione patriarcale, come struttura di organizzazione ecclesiastica amministrativa è una istituzione della Chiesa universale; quindi, non puramente ed esclusivamente orientale. La sua origine si situa nel periodo della Chiesa indivisa. Nell\’ordine dei Patriarchi della Chiesa universale, il primo Patriarca è il Vescovo di Roma, il quale finora porta anche il titolo di "Patriarca d\’Occidente";   la sua cattedrale è chiamata proprio "Patriarcale Basilica" di S.Giovanni in Laterano.

 

    Joseph Ratzinger, riferendosi al primato del Romano Pontefice e alla sua funzione patriarcale, nel 1971,  notava : «Nell\’unità dell\’unica ecclesia ci deve essere spazio per il plurale delle ecclesiae: solo la fede è indivisibile, ad essa è ordinata la funzione unificatrice del primato. Tutto il resto può essere diverso e permette quindi anche indipendenti funzioni di direzione, come erano realizzate nei "primati" o patriarcati della Chiesa antica…L\’immagine di centralismo statale, offerta dalla Chiesa cattolica fino al Concilio, non scaturisce semplicemente dall\’ufficio di Pietro, ma dal suo compito patriarcale, che è toccato al vescovo di Roma per l\’intera cristianità latina. Il diritto ecclesiastico unitario, la liturgia unitaria, l\’unitaria assegnazione delle sedi episcopali da parte della centrale romana – sono tutte cose che non risultano necessariamente dal primato come tale, ma derivano da questa stretta congiunzione di due uffici. Si dovrebbe quindi considerare come compito per il futuro il distinguere di nuovo chiaramente l\’ufficio autentico del successore di Pietro e l\’ufficio patriarcale, e, dove necessario, creare nuovi patriarcati senza più considerarli incorporati nella chiesa latina. Accettare l\’unità con il Papa non significherebbe allora più aggregarsi ad una amministrazione unitaria, ma semplicemente inserirsi nell\’unità della fede e della communio, riconoscendo al Papa il potere di un\’interpretazione vincolante della rivelazione…Ciò significa che una unione con la cristianità orientale non dovrebbe mutare assolutamente nulla nella sua concreta vita ecclesiastica»[8].

 

           Il card. J. Ratzinger, parlando delle condizioni da soddisfare prima di poter ristabilire la comunione ecclesiale tra Roma e le Chiese orientali ortodosse, scriveva nel 1986: «Per quanto riguarda la dottrina del primato, Roma non deve esigere dall\’oriente più di quello che venne formulato e vissuto durante il primo millennio. Quando, in occasione della visita del Papa a Phanar il 25 luglio 1967, il patriarca Atenagora si rivolse a lui come "il successore di Pietro, il primo in onore tra noi, quello che ha la presidenza in amore", udimmo dalla bocca di questa grande guida della Chiesa il contenuto essenziale della dichiarazione del primo millennio sul primato – e Roma non deve pretendere più di questo. La riunione potrebbe aver luogo su questa base: da parte sua, l\’oriente rinunci ad attaccare lo sviluppo occidentale del secondo millennio come eretico e accetti la Chiesa cattolica come legittima e ortodossa nella forma che ha trovato attraverso questo sviluppo; da parte sua, l\’occidente riconosca la Chiesa dell\’oriente come ortodossa e legittima nella forma che ha conservato».[9]

 

    Francis Sullivan aggiunge che, «la scomparsa di questa distinzione contribuì grandemente allo sviluppo di una teoria e di una pratica del papato che, in termini di esercizio centralizzato di giurisdizione da parte di Roma su tutta la Chiesa cattolica, oltrepassa molto ciò che il papato, come "ministero petrino", necessariamente richiede o giustifica» [10]

 

          Il Patriarca melkita Maximos IV disse nell\’assemblea conciliare del Vaticano II:«…Successeur de Pierre dans son primat universel sur toute l\’Eglise et évêque de Rome, le Pape est aussi Patriarche d\’Occident. La tradition patristique et les Conciles oecuméniques l\’ont toujours considéré comme tel, sans jamais croire que cela pourrait nuire à sa primauté…»[11]

              In questa prospettiva à da intendere anche la dichiarazione del Vaticano II, secondo la quale «le Chiese d\’oriente e d\’occidente hanno seguito durante non pochi secoli una propria vita, unite però dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana (sede romana moderante), qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina» (UR 14). In altri termini, il Vescovo di Roma,in quanto Patriarca d\’occidente,esercitava una giurisdizione diretta sul territorio della Chiesa occidentale, e i Patriarchi d\’oriente con i loro sinodi esercitavano una diretta giurisdizione sulle proprie Chiese, entro il loro territorio, poiché avevano «il diritto e il dovere di regersi secondo le proprie discipline particolari» (OE 5).

 

          Ovviamente, il Vescovo di Roma non è solo il Patriarca d\’Occidente, il primo Patriarca della Pentarchia, ruolo di origine ecclesiastica in quanto sancito dai primi Concili ecumenici, ma gode, in quanto successore di Pietro, il "ministero petrino", il quale è di diritto divino, e non semplicemente ecclesiastico, per cui egli esercita, per volontà di Cristo, un particolare ufficio,una funzione moderatrice (moderante) qualora fossero sorti nella Chiesa universale dei dissensi circa la fede o la disciplina. Resta intanto importante sottolineare che «il successore di Pietro, cioè il Vescovo della Chiesa apostolica di Roma, che "presiede alla carità" , come si esprime S.Ignazio di Antiochia, si trova in mezzo a coloro che presiedono le antiche Chiese patriarcali»[12], come esse sono descritte da LG 23. Nel mantenere e garantire l\’unità della Chiesa universale, il Vescovo di Roma  «si riconosce munito di un servizio di amore specifico ed unico per questa causa, che ha fatto l\’oggetto della preghiera di Cristo alla vigilia della sua Passione».[13]

          Il Romano Pontefice, dunque, in quanto Patriarca, è il capo diretto  della Chiesa latina, sebbene essa non sia strutturata ed organizzata a guisa di una Chiesa orientale patriarcale, poiché il Papa non è condizionato da orgnani sinodali come lo è il Patriarca nelle Chiese orientali. L\’esercizio del primato verso la Chiesa latina è diverso da quello verso le Chiese orientali, come manifesta il principio della duplice codificazione, – una per la Chiesa latina e l\’altra per le Chiese orientali -, e dal principio conciliare, secondo il quale, «i Patriarchi coi loro sinodi entro i confini del territorio patriarcale costituiscono la superiore istanza per qualsiasi questione del patriarcato […], salvo restando l\’inalienabile diritto del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi».

 

    La Chiesa di Roma, sebbene non abbia accettato la teoria bizantina della Pentarchia nel senso di assoluta parità, rivendicando per volontà del Signore, il primato di potestà su tutte le Chiese, ha sempre riconosciuto, anche dopo la rottura della comunione ecclesiastica tra l\’oriente e l\’occidente, l\’ordine canonico di onore, le prerogative e i privilegi delle altre  sedi patriarcali. I primi Concili ecumenici hanno riconosciuto e sancito una tradizione ecclesiastica già antica, secondo la quale, i vescovi di alcune Chiese locali ‑ non poche delle quali si gloriano di essere fondate dagli apostoli  o loro successori‑, godono delle particolari prerogative, e di conseguenza di un particolare onore.  Tra queste Chiese  con particolari prerogative e onore, i Concili ecumenici hanno riconosciuto cinque, nel seguente ordine di onore : L\’antica Roma, la nuova Roma (Costantinopoli), Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Diverse ragioni hanno condotto i Padri del concili antichi ad  attribuire a queste Chiese delle prerogative speciali: innanzittutto il criterio della fondazione apostolica diretta o indiretta,il martirio degli apostoli fondatori,l\’importanza storica, culturale, economica, amministrativa, politica ecc. Costantinopoli si è considerata sempre "una con Roma", "la seconda Roma", non nel senso della successione,ma nel preciso senso gemellare, una "Roma orientale"  Questa rivendicazione non metteva in dubbio la primazialità dell\’antica Roma, bensì capovolgeva l\’ordine delle prerogative tra le Chiese in oriente; perciò non fu inizialmente accettata da Roma.

 

b) L\’origine dell\’istituzione patriarcale e la potestà patriarcale nel CCEO

 

   Il diritto orientale precedente (Motu proprio Cleri sanctitati, 1957, can. 216,§1) (CS)  sanciva l\’istituzione patriarcale in questi termini:  «Secondo  una antichissima consuetudine della Chiesa, è riservato uno speciale onore ai Patriarchi d\’Oriente, dato che ognuno, mediante una molto ampia potestà, data o riconosciuta dal Romano Pontefice,presiede al proprio Patriarcato o Rito, come padre e capo». Secondo il decreto conciliare OE nn.7a,9,a., «da tempi antichissimi vige nella Chiesa l\’istituzione patriarcale, già riconosciuta dai primi concili ecumenici»; b) «Secondo un\’antichissima tradizione della Chiesa è riservato uno speciale onore ai Patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede al suo patriarcato come padre e capo». Il can.55 del CCEO afferma: «Secondo l\’antichissima tradizione della Chiesa, già riconosciuta dai primi Concili Ecumenici, nella Chiesa vige l\’istituzione patriarcale; perciò i Patriarchi delle Chiese orientali, che presiedono ciascuno la sua Chiesa patriarcale come padre e capo, devono essere trattati con singolare onore».

 

          In questi tre testi si nota una evoluzione circa la descrizione dell\’origine dell\’istituzione patriarcale. CS affermava che essa è data o riconosciuta dal Romano Pontefice (data seu agnita).  Il gruppo di studio della PCCICOR in un primo testo, modificava il suddetto canone CS in questo modo: «Secondo una antichissima tradizione della Chiesa, già riconosciuta dai primi Concili ecumenici o dal Romano Pontefice, è riservato uno speciale onore ai Patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo». Il decreto conciliare OE (nn.7 e 9), riprende questa descrizione, ad eccezione dell\’aggiunta «o dal Romano Pontefice (riconosciuta)», che non figura nel testo conciliare; infatti, il riferimento al Romano Pontefice è stato aggiunto, come risulta dagli atti della PCCICOR, «per sottolineare che una tradizione sebbene antica non può essere valida nella Chiesa, senza il consenso almeno implicito del Romano Pontefice, consenso che da se stesso è sufficiente»[14].

 

             Gli elementi menzionati in questo canone 55 del CCEO sono i seguenti:    L\’istituzione patriarcale, come struttura di organizzazione ecclesiastica amministrativa è una istituzione antichissima. La sua origine si situa nel periodo della Chiesa indivisa.    L\’istituzione patriarcale, nella sua origine storica, non è una istituzione data per esplicita concessione del Romano Pontefice, come intende il can. 216,§1 CS, bensì una istituzione sancita dai Concili ecumenici antichi, e quindi tacitamente riconosciuta dai Romani Pontefici.  La Chiesa di Roma, collaborando e partecipando ai  Concili ecumenici della Chiesa indivisa, ha sancito anche essa l\’istituzione patriarcale.I diritti e privilegi di cui gode ogni Patriarca, in quanto egli presiede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo, sono  stati concessi dai Concili ecumenici antichi, celebrati insieme dall\’oriente e dall\’ occidente.

 

5. Relazioni tra il Romano Pontefice e il Patriarca

 

          La domanda ora è la seguente: Quale è il grado di stato sui iuris delle Chiese orientali cattoliche nel nuovo  CCEO ? Cioè, quale autonomia riconosce il nuovo CCEO alle Chiese orientali sui iuris ?

 

          Il Patriarca è considerato come «padre e capo» della Chiesa a cui presiede (can. 55). Al Patriarca compete la potestà su tutti i Vescovi, non esclusi i Metropoliti, e su tutti gli altri fedeli cristiani della Chiesa a cui presiede, a norma del diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa (can. 56). Il canone modifica essenzialmente la normativa precedente del Mp Cleri sanctitati, cann. 216, secondo la quale la potestà patriarcale era descritta come «potestà data o riconosciuta dal Romano Pontefice» e da esercitare «sotto l\’autorità del Romano Pontefice». Il Vaticano II, nel decreto OE 7 riconosce la potestà patriarcale con l\’aggiunta della clausola «salvo restando il primato del Romano Pontefice». La formulazione del can. 56 è più conforme alle fonti antiche dell\’istituzione patriarcale, riconosciuta e regolata dai concili ecumenici. Il Patriarca può avere un procuratore presso la Sede Apostolica, nominato personalmente con il previo assenso del Romano Pontefice (can. 61). Ciò entra nella prospettiva dei vincoli di comunione tra le Chiese patriarcali e la Sede Apostolica.

 

             Le nuove norme circa l\’elezione dei Patriarchi delle Chiese orientali cattoliche sono formulate nei canoni 63‑77  del CCEO. Secondo il can. 63, «il Patriarca è canonicamente eletto nel Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale».Il Patriarca non viene designato dal Romano Pontefice, ma viene eletto secondo la procedura canonica stabilita dal diritto.Per la validità dell\’elezione canonica non si richiede un atto di conferma o di approvazione da parte del Romano Pontefice, bensì la comunione ecclesiastica con il Romano Pontefice, comunione richiesta e concessa.

 

             In un precedente schema del can. 66, il §3 non escludeva il diritto della Sede Apostolica di intervenire nel sinodo di  elezione del Patriarca: «Oltre alla Sede Apostolica o ai membri del Sinodo, nessuno può in alcun modo immischiarsi, sia prima sia  durante il Sinodo, nella elezione del  Patriarca»[15].  Parecchi organi di consultazione avevano espresso qualche riserva circa questo paragrafo, ritenendo che la menzione della Sede Apostolica è superflua, poiché i canoni che seguono sono sufficienti, specie quello che richiede la domanda di comunione ecclesiastica da parte del nuovo Patriarca al Romano Pontefice,e la concessione di questa comunione ecclesiastica da parte del Romano Pontefice.

 

           La PCCICOR  ha, perciò, tolto la suddetta menzione      [16].  La soppressione della clausola, circa il diritto di interferire della Sede Apostolica nella elezione canonica dei Patriarchi orientali, indica l\’intenzione del legislatore che sia garantito il principio del diritto delle Chiese patriarcali di eleggere il loro «pater et caput».

 

          Se l\’elezione  non si porta a termine entro quindici giorni, da computare dall\’apertura del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale, la cosa viene devoluta al Romano Pontefice (can. 72,§2). Questa norma non specifica  l\’oggetto preciso dell\’intervento del Romano Pontefice, ossia se si tratti di intervento diretto per la nomina del Patriarca,o di intervento indiretto, ad esempio con esortazioni  ai Vescovi sinodali, o con un altro tipo di provvedimenti.  L\’intervento del Romano Pontefice potrebbe piuttosto intendersi nel senso di Sede Romana moderante qualora fossero sorti dissensi circa l\’elezione canonica (UR,14); infatti, una tale interpretazione si indicherebbe maggiormente, tenendo conto della  natura dei rapporti tra la Sede Apostolica e le Chiese orientali.  Il Romano Pontefice è il garante del funzionamento della vita sinodale delle Chiese orientali e vigila affinché tale funzionamento sia a norma del diritto per il bene dei fedeli e l\’unità della Chiesa patriarcale.

 

   Il §2 del can. 72 modifica la norma corrispondente del can. 232 del Mp. Cleri sanctitati (1957), secondo la quale:«se l\’elezione non si porta a termine entro quindici giorni, da computare dall\’apertura del Sinodo, in questo caso, la designazione della persona del Patriarca viene devoluta  al Romano Pontefice» (designatio personae Patriarchae ad Romanum Pontificem, eo in casu, devolvitur).

 

             Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale deve informare al più presto il Romano mediante lettere sinodali della elezione e dell\’intronizzazione canonicamente compiute e inoltre della professione di fede e della promessa di adempiere fedelmente il suo ufficio pronunciate  dal nuovo Patriarca davanti al Sinodo secondo le formule approvate; le  lettere sinodali sulla compiuta elezione sono mandate  anche ai Patriarchi delle altre Chiese orientali in segno di comunione (can. 76,§1). Da parte sua, «il nuovo Patriarca deve richiedere, con lettera sottoscritta di suo pugno,al Romano Pontefice la comunione ecclesiastica» (can. 76,§2) . Il can. 77 stabilisce che «il Patriarca canonicamente eletto esercita validamente il suo ufficio solamente dall\’ intronizzazione con la quale  egli ottiene l\’ufficio a pieno diritto»(§1), ma aggiunge che «prima di ricevere la comunione ecclesiastica dal Romano Pontefice, che  il Patriarca non convochi il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale né ordini i Vescovi»(ne Synodum Episcoporum Ecclesiae patriarchalis convocet neque Episcopos ordinet) (§2). Per cui, il Patriarca, convocando il Sinodo e ordinando i vescovi prima di ricevere la comunione ecclesiastica dal Romano Pontefice, agisce validamente, ma illecitamente.

 

            Il can. 77 modifica,in parte, il can. 238,§3 del Mp. CS, che  prescriveva che il Patriarca legittimamente eletto e intronizzato, prima di ricevere solennemente  in Consistoro confirmationem et pallium plenitudinis officii pontificalis insigne (insegna della pienezza dell\’ufficio patriarcale), non gli è permesso (prohibetur) di convocare il Sinodo patriarcale e ordinare i vescovi.Nella prospettiva precedente al  Vaticano II, la concezione ecclesiologica intendeva la potestà patriarcale come una emanazione, una concessione del Romano Pontefice.

 

            Il nuovo Codice orientale, dunque, non parla di confirmatio del neoeletto Patriarca da parte del Romano Pontefice, ma al suo posto impone  ‑ come d\’altronde attesta la consuetudine già istaurata ‑ la richiesta della comunione ecclesiastica al Romano Pontefice. Effettivamente, dopo il Vaticano II si è ristabilita l\’antica tradizione dello scambio di lettere di comunione ecclesiastica tra i Patriarchi e il Papa. Alla lettera indirizzata al Papa dai Patriarchi cattolici, dopo la  canonica elezione, per chiedere la comunione ecclesiastica, il Papa suole rispondere accogliendo la  richiesta di comunione ecclesiastica del neoeletto Patriarca. Inoltre il  can. 76,§2 non fa menzione del pallio. Questa omissione è giustificata dal significato stesso del pallio, il quale è insegna della potestà conferita agli arcivescovi e metropoliti della Chiesa latina[17], come anche ai Patriarchi latini in oriente, dalle crocciate in poi. Inoltre il concilio Lateranense IV (1215), cost. 5, trattando della dignità dei Patriarchi orientali, menziona la consegna del pallium come «plenitudinis officii pontificalis insigne». Ovviamente tutto ciò non è ben conforme alla nozione del Patriarca orientale descritta  dal Concilio Vaticano II (cf. OE 7)[18].  Infatti, al Patriarca spetta non solo una potestà sovraepiscopale, ma anche sovrametropolitana. Così, oggi, la prassi della concessione del pallio ai Patriarchi orientali è un segno esclusivamente della comunione ecclesiastica con il Romano Pontefice [19].

 

              C\’è stato indubbiamente uno sviluppo nella concezione della potestà patriarcale rispetto a quella suprema del Romano Pontefice sulla Chiesa universale. Nel MP Cleri sanctitati era chiaramente sottolineata la concezione, secondo la quale i Patriarchi e i sinodi orientali «sono partecipi, per diritto canonico, della suprema autorità della Chiesa»(cf Pars I: De suprema potestate deque iis qui eiusdem sunt canonico iure participes). Questo titolo del MP CS non appare più nel CCEO, ma la costituzione apostolica di Giovanni Paolo II Sacri Canones afferma che, «i Patriarchi e i sinodi sono partecipi, per diritto canonico, della suprema autorità della Chiesa» (patriarchae et synodi iure canonico supremae Ecclesiae auctoritatis partecipes sunt). Secondo questa formula, la potestà patriarcale e sinodale è una partecipazione della «solleciduto omnium ecclesiarum», di cui supremo garante è il Romano Pontefice; così la figura del Patriarca   viene    immediatamente dopo il Pontefice        in partecipazione al suo potere sovraepiscopale; si tratta, però, di una partecipazione non per diritto divino, in quanto la potestà del Romano Pontefice è indivisibile, ma per diritto ecclesiastico, stabilito dalla stessa suprema autorità della Chiesa.

 

          Il noto teologo melkita N.Edelby osserva in merito: «È certo che la giurisdizione patriarcale non lede, non diminuisce, rispetta e lascia intatto il primato del Romano Pontefice (…) Il patriarcato è subordinato al primato, ma non ne l\’emanazione. È falso credere che l\’autorità patriarcale, come ogni altra potestà sovraepiscopale non è legittima che nella misura in cui essa è una partecipazione delegata del primato romano. Il patriarcato esiste da esso stesso e si esercita legittimamente in coordinazione gerarchica con il primato romano»[20]. E Edelby aggiunge: «Il Papa è, certo, Vescovo e Patriarca, ma non è soltanto questo. Se un sistema di pentarchia ha funzionato nella Chiesa primitiva, ciò non può essere compreso, nella dottrina cattolica, che al livello patriarcale. Il primato nella Chiesa resta sempre una prerogativa personale e non collegiale del solo Romano Pontefice. Ma come l\’esercizio della potestà patriarcale non deve diminuire in nessun modo le prerogative del primato romano, così l\’esercizio del primato romano non deve diminuire le prerogative patriarcali. Si tratta di due istituzioni coordinate e subordinate , ma non opposte»[21].

 

          È particolarmente significativa in questo senso  l\’importante lettera di Papa Gregorio Magno ai Patriarchi  Eulogio di Alessandria e Anastasio di Antiochia: «A voi spetta mantenere senza interruzione né partiti presi l\’ordine ecclesiastico ricevuto:la tentazione diabolica non può esercitare su di voi nessuna presa. Impedite questa iniquità presso tutti i vescovi di vostra competenza, in modo che tutta la Chiesa vi riconosca come patriarchi non solo grazie alle vostre opere benefiche ma anche a motivo della vostra autentica autorità»[22].

 

          Come, dunque, si potrebbe concepire la formuala «Patriarchae et synodi iure canonico supremae Ecclesiae auctoritatis partecipes sunt, tenendo conto che  l\’istituzione patriarcale sia puramente di origine e di diritto ecclesiastico, riconosciuta dai primi Concili ecumenici della Chiesa antica ? Si potrebbe dire che i Patriarchi con i loro sinodi sono partecipi iure canonico della suprema autorità della Chiesa, in quanto l\’istituzione patriarcale ha la sua origine nei concili ecumenici,  si esprime e si esercita fondamentalmente nella prospettiva di comunione ecclesiastica e della  norma del diritto stabilito dalla suprema autorità della Chiesa. In questo senso giustamente il can. 56 afferma che al Patriarca compete la potestà «a norma del  diritto approvato dalla suprema autorità della Chiesa».

 

          Quanto al senso della comunione ecclesiastica, la «Nota esplicativa previa», aggiunta alla costituzione dogmatica del Vaticano II sulla Chiesa, Lumen Gentium, afferma che «…è richiesta la "gerarchica" comunione col capo della Chiesa e con le membra. "Comunione" è un concetto tenuto in grande onore nell\’antica Chiesa (e anche oggi, specialmente in oriente). Per essa non s\’intende un certo vago "affetto", ma una "realtà organica", che richiede forma giuridica e insieme è animata dalla carità». Lumen Gentium  24, afferma che «se il successore di Pietro si oppone o rifiuta la comunione apostolica, i Vescovi non possono essere assunti all\’ufficio».

 

          Circa i rapporti più specifici tra il Papa e il Patriarca il can. 92 stabilisce:

 

          §1. Il Patriarca manifesti la comunione gerarchica con il Romano Pontefice, successore di san Pietro, mediante la fedeltà, la venerazione e l\’obbedienza che sono dovute al Pastore supremo della Chiesa universale.

          §2. Il Patriarca deve fare la commemorazione del Romano Pontefice, in segno di piena comunione con lui, nella Divina Liturgia e nelle lodi divine, secondo le prescrizioni dei libri liturgici, e curare che sia fatta fedelmente da tutti i Vescovi e da tutti gli altri chierici della Chiesa a cui presiede.

          §3. Il rapporto del Patriarca col Romano Pontefice sia frequente e gli invii, secondo le norme speciali stabilite, la relazione sullo stato della Chiesa a cui presiede e, entro un anno dalla sua elezione e in seguito più volte durante la sua funzione, compia la visita all\’Urbe per venerare le tombe dei santi Apostoli Pietro e Paolo e si presenti al successore di Pietro nel primato sulla Chiesa universale.

 

          Secondo il can. 1060,§1,1E, «solo il Romano Pontefice ha diritto di giudicare i Patriarchi».

 

          Infine, oltre alla Santa Sede, anche «il Patriarca col consenso del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e col previo assenso del Romano Pontefice può stipulare delle convenzioni (con nazioni o con altre società politiche) , che non siano contrarie al diritto stabilito dalla Sede Apostolica, con l\’autorità civile; ma il Patriarca non può rendere esecutive le stesse convenzioni se non dopo aver ottenuto l\’approvazione del Romano Pontefice» (can. 98). Anche queste convenzioni continuano tuttora ad aver vigore non ostando per nulla le prescrizioni contrarie del Codice.

 

          Quanto alla potestà del Patriarca sui fedeli della propria Chiesa patriarcale fuori dai confini del proprio territorio, il can. 78,§2 stabilisce che essa può essere validamente esercitata, se ciò è stabilito dal diritto comune oppure dal diritto particolare approvato dal Romano Pontefice.  Infatti ci sono nel CCEO  alcuni canoni che rendono più esteso il potere dei Patriarchi orientali, cioè riguardano i territoti extra i confini delle Chiese patriarcali; eccone alcuni esempi[23]:

    1) La possibilità che il territorio delle Chiese patriarcali venga esteso dalla Santa Sede anche oltre le regiones orientales.

    2) La facoltà del Patriarca di ordinare e intronizzare anche i  Metropoliti e i vescovi, costituiti fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale (can. 86,§2).

    3) Lo ius vigilantiae del Patriarca suoi propri fedeli in tutto il mondo  (can.148,§1).

    4) La facoltà del Patriarca di celebrare i matrimoni dei fedeli della propria Chiesa in tutto il mondo (can.829,§3).

    5) L\’obbligo dei vescovi costituiti fuori dei confini del territorio patriarcale di intervenire nei Sinodi della propria Chiesa (can.102).

 

    Il Papa Giovanni Paolo II, nella sua allocuzione in occasione della presentazione del nuovo CCEO al Sinodo dei vescovi, il 26 ottobre 1990, ha fatto riferimento «a quelle norme del Codice riguardanti il potere dei Capi delle Chiese orientali sui iuris circoscritto a un territorio», e ha ripetuto quanto ha comunicato all\’ultima assemblea plenaria dei membri della PCCICOR, e ha sottolineato: «Ora a Codice promulgato sarò lieto di considerare le proposte elaborate nei Sinodi, bene circostanziate e con chiaro riferimento alle norme del Codice, che si ritenesse opportuno specificare con un ius speciale e ad tempus, per il quale del resto si indica la via in un relativo canone del Codice con la clausola riferentesi alla ius a Romano Pontifice approbatum »[24].

 

Conclusione

 

          Il «Codex canonum Ecclesiarum orientalium», promulgato il 18 ottobre 1990, e messo in vigore dal 1 ottobre 1991, si situa fondamentalmente nella linea della rinnovata ecclesiologia del Vaticano II. Tuttavia le possibilità offerte ed aperte dal Concilio come anche dai principi direttivi per l\’opera di revisione, approvati dalla Plenaria del Pontificia Commisione, nel marzo 1974, e ratificati dalla Sede Apostolica, erano più ampie di quelle effettivamente realizzate dai redattori del Codice. Certamente il CCEO non è  il modello nella prospettiva della ricerca dell\’unità con l\’oriente cristiano; l\’ecclesiologia del Codice è più ristretta di quella del Concilio, comunque, malgrado le sue lacune,  la nuova codificazione orientale apre delle prospettive con dei limiti imposti dal contesto storico in cui è stata formata. La codificazione cattolica orientale non è finita, ma sarà completata quando tutte le Chiese orientali sui iuris avrano emanato il loro diritto particolare, che potrebbe colmare le lacune del Codice comune.

 

 




[1]      M. PHILPON, La Santissima Trinità e la Chiesa, in G. BARAUNA (a cura), La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, 329.

[2]      Nuntia 28 (1989) 7

[3]      Nuntia 28 (1989) 7

[4]      Nuntia 28 (1989) 29

[5]      Nuntia, 28, 1989, 29.

[6]      G.GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa, mistero di comunione, Roma 1990, 661.

[7]      Cf.  Y.CONGAR, «Le Pape comme Patriarche d\’Occident: approche d\’une réalité trop égligée» in Istina 28 (1983), 373-390.

[8]      J.RATZINGER,  Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesio- logiche, Brescia 1971, pp. 144‑159.

[9]       J.RATZINGER, Theologische Prinzipienlehre: Bausteine zur Fundamentaltheologie, München 1982, p. 209 (traduzione di F.SULLIVAN, in Il Magisterio nella Chiesa Cattolica, Assisi 1986, pp. 134-135.

[10]      F. SULLIVAN, Il Magistero nella Chiesa Cattolica, Assisi 1986, p. 92.

[11]      Acta Synodalia Concilii Vaticani II, vol. III, Pars IV, Typis Polyglottis Vaticanis 1965, pp. 532‑535.

[12]      Cf. Allocuzione di GIOVANNI PAOLO II all\’Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione per la Revisione del CICO, in L\’Osservatore Romano, 13 novembre 1988.

[13]       Cf. Allocuzione di GIOVANNI PAOLO II al Patriarca ortodosso di Alessandria Parthenios III, in L\’Osservatore Romano del 24‑25 sett.1990. Cf. anche GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Ut Unum sint 88-99

[14]      I.ZUZEK, «De Patriarchis et Archiepiscopis Maioribus», Nuntia 2 (1976) 36.

[15]      Nuntia, 19 [1984] 26.

[16]      Nuntia,22  (1986) 48‑49.

[17]      cf Mp Inter eximia dell\’ 11 maggio 1978

[18]      Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. Centro di Documentazione,  a cura di G.ALBERIGO, G.DOSSETTI, P.-P.IOANNOU, C.LEONARDI, P.PRODI, consultante H.JEDIN, Bologna 1991, 236.

[19]      Cf. Nuntia, 19 (1984) 8.

[20]      N.EDELBY – I.DICK, Les Eglises orientales catholiques, Décret "Orientalium Ecclesiarum", in Unam Sanctam  76, Paris 1970, 316-317.

[21]      Ibid, 320.

[22]      S.GREGORIO MAGNO, Epist. 43 P: PL 77, 774 AB.

[23]      ibid., 29-30.

[24]      L\’Osservatore Romano, 27 ott. 1990.