STORIA DELL’IDENTITA ORIENTALE

 

Premessa

 

            Nel riflettere sull’identità orientale nella storia bisogna anzitutto premettere che l’Oriente cristiano è molto più complesso e multiforme in storia, istituzioni e cultura dell’Occidente cristiano. L’Oriente cristiano nell’antico impero romano fin dalle sue origini, pur presentandosi eterogeneo nel suo interno, non di meno dimostra una capacità di assumere i tratti caratteristici di ogni singola cultura e religione e con un sommo rispetto di ogni comunità particolare .

 

   Per divina provvidenza, come afferma LG 23,   è avvenuto che in Oriente varie Chiese, in vari luoghi fondate dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in molte comunità cristiane con una propria identità,  distinta per cultura e circostanze storiche dei popoli. Già prima del concilio ecumenico di Nicea (325), come attestano i cosiddetti “Canones Apostolorum” (fine III° sec., can. 34), i vescovi di ciascun :Eqnoj (unità etnica territorialmente riconoscibile) si radunavano in assemblee attorno al loro primate (prw///toj%.. .   Di conseguenza non si può parlare in maniera univoca di Chiesa orientale, bensì di Chiese orientali, e fra esse, soprattutto delle antiche Chiese patriarcali, riconosciute già dai primi Concili ecumenici e dalla Sede Romana, quasi matrici della fede, che ne hanno fondate altre che sono come loro figlie, con le quali restano fino ai nostri tempi legate. Questa varietà di Chiese locali, raggruppate attorno alle loro Chiese-madri, fra loro concordi, dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa e la divina unità nella varietà della fede ortodossa nel suo contenuto, e cattolica nella sua universalità. Parimenti non si può parlare in maniera univoca di storia dell’identità orientale, bensì di storia dell’ identità di vari :Eqnoj di popoli, entro i quali si sono fondate  e costituite  varie  cristianità orientali. L’eredità tramandata dagli apostoli è stata accolta ed accettata in forme e modi diversi e, fin dai primordi stessi della Chiesa, qua e là variamente sviluppata, anche per le diversità di carattere e di condizione di vita (UR 14).  Una e unica è la Tradizione apostolica, tramandata attraverso i Padri, ma  professata, celebrata e vissuta in oriente nelle cinque grandi tradizioni di popoli, ossia Costantinopolitana (bizantina), Alessandrina, Antiochena, Armena e Caldea, sviluppatasi, quest’ultima, nell’antico impero persiano in Babilonia.

 

   

  Tuttavia, salva restando questa legittima varietà di culture, ma anche di avventure e vicende conflittuali per circostanze storiche, tutte le Chiese orientali hanno alcuni tratti fondamentali comuni di identità. In questa prospettiva si può parlare di identità orientale, rispetto a quella occidentale. Ma nel delineare questi tratti fondamentali comuni, la loro origine e sviluppo fino ad oggi, non si deve trascurare il fatto che l’Oriente e l’Occidente hanno radici cristiane comuni; per cui è ovvio  l’auspicio di Giovanni Paolo II che la Chiesa e specie la nostra Europa tornino a respirare pienamente con i  “due polmoni”. Infatti non si comprende la storia della Chiesa, nel duplice volto orientale ed occidentale, se non partendo dalle origini.

 

Storia dell’identità orientale: durante il primo millennio;  il secondo millennio fino al Concilio di Firenze; dal concilio di Firenze ad oggi.

 

  Ricordando i secoli della “Cristianità indivisa”, è da notare che l’incontro del messaggio evangelico con le varie culture provocò già allora inevitabilmente difficoltà e tensioni. Tuttavia la storia dell’identità delle comunità orientali viene individuata nei grandi Concili ecumenici della Chiesa indivisa, celebrati in oriente, nel fascino del monachesimo, nella comune venerazione dei santi Padri, nello sviluppo della teologia e spiritualità orientale, nella Divina Liturgia, nella contemplazione delle icone, nella venerazione della Theotokos e dei santi.

 

  Come è a tutti noi noto, l’imperatore Costantino (324-337) pose fine al conflitto tra cristianesimo e impero romano. Abbandonò poi l’antica capitale e trasferì il centro della vita politica, sociale e culturale, di quello che era allora considerato il “mondo civile”, nel luogo dove era situata un’antica città greca sulle rive del Bosforo: Bizanzio. Costantinopoli, ufficialmente denominata  “Nuova Roma”, fu la capitale di un impero, chiamato ancora “romano” per oltre undici secoli, finché non cadde nelle mani dei Turchi nel 1453. Soprattutto dopo la scomparsa degli antichi centri cristiani in Egitto, Palestina e Siria, dominati per secoli dalle invasioni degli Ottomani, Costantinopoli divenne il centro indiscusso e rappresentativo delle cristianità orientali. Il suo vescovo, attribuitogli il primato di onore, dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma, secondo l’espressione del can. 3 del Concilio di Costantinopoli (381), primato riconosciuto anche dal famoso can. 28 del Concilio di Calcedonia (451), canoni ambedue fortemente contestati dalla Chiesa di Roma proprio per la giustificazione puramente politica, e come “Patriarca Ecumenico” attribuitogli in seguito dall’imperatore Giustiniano I, divenne effettivamente il solo Patriarca ed Etnarca (leader) della cristianità e della grande nazione greca. Costantinopoli intraprese anche un’azione missionaria e culturale presso i popoli Slavi nei paesi Balcanici, svolta dai santi fratelli greci di Tessalonica, Cirillo e Metodio,  evangelizzatori ed illuminatori degli Slavi , azione approvata da Roma,  poiché svolta nel territorio dell’allora patriarcato d’occidente.

 

  Circostanze storiche e politiche, dunque, posero così Bizanzio in una posizione singolare di preminenza e, in una certa misura, di auto-sufficienza, da cui sarebbe derivata una tradizione teologica a un tempo sintetica e creativa, ma orientata a preservare la fede ortodossa dalle eresie, fenomeno non solo ecclesiastico, ma anche sociale che sconvolgeva l’ordine pubblico e la pace della cittadinanza. Per molti secoli Bizanzio si sentirà vitalmente impegnato a mantenere l’unità di un mondo cristiano che si stava disgregando: restando fedele alla cristologia del Concilio di Calcedonia e del Tomus di fede di Papa Leone Magno, avrebbe mantenuto intatti, malgrado tutte le tensioni, i rapporti verso l’Occidente; e restando rigorosamente fedele alla cristologia alessandrina di Atanasio e Cirillo, avrebbe cercato – sfortunatamente senza successo – di tenere aperte le porte di unità ai monofisiti e ai nestoriani.

 

  Sono intanto a tutti note le scissioni avvenute nel primo millennio in Oriente.  Le prime di esse avvennero per la contestazione delle formule dogmatiche dei Concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451), e più tardi nell’ XI° sec. per la rottura della comunione ecclesiastica tra i Patriarcati orientali e la Sede romana, non senza la colpa di entrambe le parti, come dimostrano gli storici dello scisma del 1054. Queste scissioni, oltre alle cause esterne e anche per mancanza di mutua comprensione e carità, diedero in seguito ansa alle separazioni.

 

  Le comunità cristiane sorte nell’ambito o fuori dell’antico Impero Romano d’oriente hanno molto di comune nel loro patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, sebbene distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, in quanto basato sui dettati dei primi Concili ecumenici, di certi concili particolari antichi, sugli scritti dei Santi Padri ed, in parte, anche sulle leggi imperiali, pubblicate in materie ecclesiastiche, prima delle separazioni. Questo patrimonio ha come origine primaria le cinque tradizioni:  Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana. Tre di queste tradizioni sono sorte nell’ambito dell’Impero romano: Antiochena, Alessandrina e Costantinopolitana o bizantina partendo dalla Cappadocia in Asia Minore; mentre due di esse sono sorte ai margini dell’Impero romano: la Caldea in Mesopotania e Persia, e l’Armena per le popolazioni Armene. Queste  cinque Tradizioni sono capostipiti di varie Chiese orientali autonome, chiamate oggi Chiese sui iuris. Alla Tradizione Alessandrina appartengono la Chiesa Copta in Egitto e la Chiesa Etiopica. Alla Tradizione Antiochena appartengono la Chiesa Malankarense in India, la Chiesa Maronita in Libano e in Medio oriente, e la Chiesa Siriaca in Siria e Medio oriente. Alla Tradizione Armena appartiene la Chiesa Armena di Cilicia sparsa oggi in tutto il mondo. Alla Tradizione Caldea o Siro-orientale appartengono la Chiesa Caldea in Babilonia e la Chiesa Siro-Malabarese in India. Alla Tradizione Costantinopolitana o Bizantina appartengono attualmente 13 Chiese sparse in Europa centrale ed orientale, Medio oriente e in tutto il mondo in diaspora: Le Chiese Greco-melkita, Ucraina, Bieolorussa, Bulgara, Greca (in Grecia), Ungherese, Italo-albanese, Rumena, Rutena, Slovacca, Albanese, Russa, Serba.

 

  Dopo il Concilio di Calcedonia (451), l’ambito culturale del pensiero teologico  bizantino fu sempre più limitato al mondo di lingua e cultura greca. La ricchezza delle varie tradizioni non-greche del cristianesimo primitivo – specialmente siriaca, armena, e caldea – fu sempre meno presa in considerazione dai teologi e pensatori della capitale imperiale. Queste tradizioni furono effettivamente emarginate dal mondo greco-bizantino, poiché identificate in blocco con le eresie. Si deve però ricordare che fino alla rinascita della teologia in Occidente nel XII secolo, Costantinopoli rimase in oriente, quasi senza concorrenza, il centro intellettuale indiscusso della cristianità. Si capisce perciò come questo creasse un senso di crescente benché deplorabile auto-sufficienza ed isolamento. E’ proprio dopo la caduta di Costantinopoli che emergono le altre più antiche tradizioni orientali e le loro Chiese,  conosciute in Occidente specie per la loro presenza nel Concilio di Firenze (1439), Concilio di unione, ma senza esito, con le diverse Chiese orientali, ormai da secoli separate dalla Sede romana.

 

            Dopo l’inevitabile fallimento di Firenze, la Sede Romana per mezzo dei missionari inviati dalla Congregazione di “Propaganda Fide”, istituita nel 1622, nella prospettiva di cristianizzare le terre degli infedeles e di convertire al cattolicesimo i fedeli ortodossi, greci, copti, armeni, giacobiti ed assiri, intraprese in oriente un movimento, che  a partire dal sec. XVII° ha portato all’unione con Roma frazioni di quelle Chiese orientali separate da Roma, non senza nuove rotture. Il metodo seguito in quel tempo, chiamato dagli ortodossi, non senza disprezzo, “Uniatismo” e identificato con il proselitismo,  si basava sulla convinzione di esclusivismo soteriologico di ecclesialità e sacramentalità,  rivendicato dalla Chiesa di Roma, che si traduceva in termini giuridici nel principio di prevalenza della Chiesa latina rispetto a quelle orientali;  la Chiesa latina era considerata come sinonimo della Chiesa universale, e di conseguenza il patrimonio teologico, liturgico, disciplinare spirituale della Chiesa latina era ritenuto sinonimo di quello della Chiesa universale;  si trattava del principio, allora in vigore, della praestantia ritus latini, sancito da Benedetto XIV nella cost. apost. Etsi pastoralis  (1742) e nella lettera enciclica  Allatae sunt  (1755) . Tutto ciò impostava la questione dell’unione nella prospettiva di assorbimento e di  “latinizzazione” delle Chiese orientali, cattoliche ed ortodosse; relativamente, in specie, alle Chiese orientali cattoliche, la loro comunione con Roma, ha, su certi aspetti, impoverito ed alienato il loro patrimonio, portate progressivamente a perdere la loro identità.

 

   Il Concilio Vaticano II, prende atto di questo fatto, e d’una parte, nella prospettiva di una rinnovata ecclesiologia di comunione, nel decreto sull’Ecumenismo, n. 17, afferma: “ Questo sacro concilio, ringraziando Dio che molti orientali figli della Chiesa cattolica, i quali custodiscono questo patrimonio e desiderano viverlo con maggior purezza e pienezza, vivano già in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale, dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni appartiene alla piena cattolicità e apostolicità  della Chiesa”. D’altra parte, nel decreto sulle Chiese cattoliche orientali, n. 6, si rivolge agli orientali cattolici stessi con queste parole: “ Sappiano e siano certi tutti gli orientali che sempre possono e devono conservare i loro legittimi riti liturgici e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragione del proprio organico progresso. Pertanto tutte queste cose devono essere con somma fedeltà osservate dagli stessi orientali,  i quali devono acquistarne una conoscenza sempre più profonda e un uso più perfetto, e qualora per circostanze di tempo o di persone fossero indebitamente venuti meno a esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni […] Si raccomanda caldamente agli istituti religiosi e alle associazioni di rito latino, che prestano la loro opera nelle regioni orientali o tra i fedeli orientali, che per una maggiore efficacia dell\’apostolato fondino, per quanto è possibile, case o anche province di rito orientale”.

  

     Comunque, a prescindere dall’origine storica delle 21 Chiese orientali cattoliche sui iuris , attualmente esistenti, e dalle vicende a varie epoche di loro unione con Roma, esse hanno comuni  radici con le Chiese sorelle ortodosse, che risalgono al tempo dell’unione dell’Oriente e dell’Occidente. Le 21 Chiese orientali cattoliche di oggi provengono dalle loro grandi Madri Chiese patriarcali, di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme,  Armenia e  Babilonia. Né si deve dimenticare che le Chiese orientali che non sono ancora nella piena comunione   con la Chiesa cattolica, condividono lo stesso  patrimonio e sono regolate dal medesimo e fondamentalmente unico patrimonio della disciplina canonica, cioè dai ‘sacri canoni” dei primi secoli della Chiesa , quantunque, ovviamente, questo patrimonio comune debba  alquanto essere adattato alle odierne condizioni (OE, n. 9).

 

Le caratteristiche dell’identità orientale

 

  Da tutto ciò risulta ovvio, come si è detto, che l’oriente cristiano è molto più complesso e multiforme in storia, istituzioni e cultura  dell’occidente cristiano nella mirabile varietà con cui ha consentito di comporre, con tessere diverse, un mosaico così ricco e composito  (OL 5). Perciò l’identità dell’oriente cristiano va ricercata anzitutto negli elementi comuni di queste cinque Tradizioni matrici della fede delle comunità cristiane, e poi in ciascuna di queste Tradizioni. In considerazione degli elementi comuni di queste cinque Tradizioni, si può parlare in singolare di Tradizione orientale e di identità orientale. Vi sono alcuni tratti della Tradizione spirituale e teologica, comuni alle diverse Chiese d’oriente, che ne distinguono la sensibilità rispetto alle forme assunte dalla trasmissione del Vangelo nelle terre d’occidente.

 

  Il Vaticano II,  dopo aver richiamato alla mente di tutti che “in oriente prosperano molte Chiese particolari o locali, tra le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali, e non poche di queste si gloriano d\’essere state fondate dagli stessi apostoli”,  riconosce  il carattere e la storia propria degli orientali. Il decreto UR 14 afferma: “Le Chiese d\’oriente e d\’occidente hanno seguito durante non pochi secoli una propria via, unite però dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale”. In questo senso la Tradizione orientale è vicinissima alla Tradizione d’Occidente che nasce e si nutre della stessa fede. Il decreto conciliare prende atto che “le Chiese d\’oriente hanno fin dall\’origine un tesoro, dal quale la Chiesa d\’occidente molte cose ha prese nel campo della liturgia, della tradizione spirituale e dell\’ordine giuridico”. “Né si deve sottovalutare il fatto che i dogmi fondamentali della fede cristiana, quali quelli della Trinità e del Verbo di Dio incarnato da Maria vergine, sono stati definiti in concili ecumenici celebrati in oriente. E per conservare questa fede quelle Chiese molto hanno sofferto e soffrono”. La fede apostolica difesa e definita nei primi Concili ecumenici, celebrati in oriente insieme dalla Chiesa di Roma e le Chiese orientali, e il  riconoscersi reciprocamente nella successione apostolica, tutto ciò costituisce  patrimonio e identità della Chiesa universale, e solido fondamento per l’auspicata piena comunione di tutte le  Chiese orientali con la Sede Apostolica. 

 

  L’identità dell’oriente cristiano viene individuata nelle varie Scuole teologiche, nelle varie Liturgie e Discipline canoniche; campi questi, diremmo, privilegiati, in quanto si sviluppano nel contesto originario della Chiesa nascente. Sono campi particolari che, malgrado le differenziazioni legittime, si compenetrano e si condizionano a vicenda all’interno di una visione globale della rivelazione divina che pervade tutta la vita, che inizia e culmina nella lode epicletica e dossologica della Trinità santissima. Nella visuale orientale tutto inizia con l’epiclesi allo Spirito Santo e termina con la dossologia trinitaria. Infatti con la  teologia conosciamo ciò che dobbiamo credere e rendiamo culto alla SSma Trinità; con la liturgia  celebriamo ciò che crediamo e rendiamo culto alla SSma Trinità; con la disciplina e normativa canonica  applichiamo e testimoniamo nella nostra vita personale ed ecclesiale ciò che professiamo e celebriamo, rendendo culto alla SSma Trinità; con la  teologia spirituale conosciamo le vie di comunione con Dio per santificare la nostra vita e tutte le nostre opere nel mondo, rendendo culto alla SSma Trinità. Tutto ciò non può avvenire che in virtù dello Spirito Santo.

 

 Così il Vaticano II nei due decreti OE e UR sintetizza questo patrimonio orientale, da cui emergono le caratteristiche dell’identità orientale:

 

-1-  L’identità teologica e  spirituale  orientale

 

 L\’eredità tramandata dagli apostoli è stata accettata in forme e modi diversi e fin dai primordi stessi della Chiesa, qua e là variamente sviluppata, anche per la diversità di mentalità e di condizioni di vita” (n. 14). Tale identità  va cercata anzitutto nella sua teologia, cioè nel carattere proprio degli orientali nell\’esporre i misteri. Il Concilio ne prende atto affermando che:  “Nell\’indagare la verità rivelata in oriente e in occidente furono usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla proclamazione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall\’ un o che non dall\’altro, cosicché si può dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi. Per ciò che riguarda le autentiche tradizioni teologiche degli orientali, bisogna riconoscere che esse sono eccellentemente radicate nella sacra scrittura, sono coltivate ed espresse dalla vita liturgica, sono nutrite dalla viva tradizione apostolica, dagli scritti dei padri e degli scrittori ascetici orientali e tendono a una retta impostazione della vita, anzi alla piena contemplazione della verità cristiana” (UR 17).

 

  L’influsso della teologia sulla vita e della vita sulla teologia si coglie con più facilità nella tradizione orientale. L’oriente è stato aiutato a percepire questa interazione da tre elementi fondamentali:

 

  Il primo è il forte impatto sociale della teologia. Specie, la teologia bizantina è scritta in una lingua arcaizzante, non capita dal popolo, quindi quella teologia riguardava solo una ristretta cerchia di persone. La teologia, però, prima di essere scritta, almeno in alcuni suoi aspetti più immediati, era discussa e diffusa tra larghi strati della popolazione. Essa, quindi, non si fermava ad una casta, presso gli “addetti ai lavori”. Essa appassionava tutti: la gerarchia, il clero, i monaci, gli uomini politici, gli intellettuali,  e tutto il popolo tanto che spesso assistiamo a delle sommosse popolari come quella del 518, in occasione delle lotte calcedonensi che, costò a Costantinopoli il trono dell’imperatore Anastasio. Oppure durante la lotta iconoclasta che si trasformò in una vera e propria guerra civile durata più di un secolo. Ciò si spiega per il fatto che a Bisanzio il cristianesimo aveva impresso una tale dimensione dell’eterno anche sulla vita sociale e che gli avvenimenti religiosi anche di minima importanza assumevano gravi dimensioni. Era naturale, quindi, che insignificanti particolari teologici assumessero immensamente più grande importanza di quanto potessero avere grandi avvenimenti sociali e statali. Potremmo chiamare questo fenomeno come “sterile bizantinismo”, ma la spiegazione più profonda è che per i bizantini le questioni religiose e teologiche riguardavano il mondo futuro, la vita eterna, molto più importante delle cose di questo mondo. Le eresie teologiche mettevano in pericolo la vita eterna, il cristianesimo stesso, per cui bisognava lottare e tutti vi erano coinvolti, specialmente i monaci.

 

Il secondo elemento è l’esperienza teologica, la teologia detta “esperenziale”. Senza trascurare la speculazione, usando anche delle categorie filosofiche greche, ma senza produrre delle “Summae teologiche”, tranne qualche tentativo insignificante, verificatosi nel tardo Medioevo e su influsso occidentale, Bizanzio preferirà conoscere Dio nell’esperienza mistica. Una grande parte della teologia bizantina, specialmente quella vicina agli ambienti monastici,  era ispirata dall’esperienza religiosa, frutto cioè della preghiera, della liturgia, dell’ascesi, in una parola della “contemplazione di Dio”. Per la tradizione orientale la “teologia” non è altro che la  “visione e l’adorazione mistica (contemplazione) della Trinità. La preghiera si identifica con la teologia, cioè con il grado più alto della contemplazione, con l’esperienza della SS. Trinità nel proprio cuore. Pregare significa essere teologo, fare teologia significa avere l’esperienza mistica della SS. Trinità. Era comune la concezione della dimensione liturgica di fare teologia: Evagrio Pontico scriveva:“Se sei teologo pregherai veramente, e se pregherai veramente, tu sei teologo” .

 

Il terzo elemento è la tradizione chiamata “apofatica”. E’ proprio l’impossibilità di conoscere Dio nella sua essenza che porta la teologia orientale a insistere sul concetto di “teologia apofatica”. La teologia dei Padri Greci è una teologia apofatica. Per i Padri Cappadoci, Basilio, Gregorio Nazianzeno Gregorio Nisseno, il Dio dei filosofi, raggiunto attraverso la ragione, non poteva essere quello della rivelazione. Teologia apofatica significa conoscere Dio più che non i ragionamenti umani, con l’esperienza di Dio nella preghiera, nella liturgia, nell’ascesi. E’ un atteggiamento esistenziale che rifiuta di formulare dei concetti su Dio ed esclude decisamente ogni teologia astratta e puramente intellettuale, che vorrebbe adattare al pensiero umano i misteri della sapienza di Dio.

 

Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Orientale Lumen n. 16 (1996), spiega questo concetto: “Solo in una purificazione progressiva della conoscenza di comunione, l’uomo e Dio si incontreranno e riconosceranno nell’abbraccio eterno la loro mai cancellata connaturalità d’ amore. Nasce così quello che viene chiamato l’apofatismo dell’oriente cristiano: più l’uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce come mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza. Ciò non va confuso con un misticismo oscuro dove l’uomo si perde in enigmatiche realtà impersonali. Anzi i cristiani d’oriente si rivolgono a Dio come Padre. Figlio, Spirito Santo, persone vive, teneramente presenti, alle quali esprimono una dossologia liturgica solenne e umile, maestosa e semplice”.

 

2- L’identità liturgica orientale

 

L’identità dell’oriente cristiano viene individuata soprattutto  nel patrimonio liturgico e spirituale. Così lo sintetizza il Vaticano II (UR 15):

   

  E` pure noto a tutti con quanto amore i cristiani orientali compiano le sacre azioni liturgiche, soprattutto la celebrazione eucaristica, fonte della vita della Chiesa e pegno della gloria futura, con la quale i fedeli uniti col vescovo hanno accesso a Dio padre per mezzo del Figlio, Verbo incarnato, morto e glorificato, nell\’effusione dello Spirito santo, ed entrano in comunione con la santissima Trinità, fatti " partecipi della natura divina" (2 Pt. 1, 4). Perciò per mezzo della celebrazione dell\’eucaristia del Signore in queste singole Chiese la Chiesa di Dio è edificata e cresce e per mezzo della concelebrazione si manifesta la loro comunione.  In questo culto liturgico gli orientali magnificano con splendidi inni Maria sempre vergine, solennemente proclamata santissima madre di Dio dal concilio ecumenico di Efeso, perché Cristo conforme alla s. scrittura fosse riconosciuto, in senso vero e proprio, figlio di Dio e Figlio dell\’uomo, e onorano pure molti santi, fra i quali i padri della Chiesa universale… In oriente si trovano pure le ricchezze di quelle tradizioni spirituali, che sono state espresse specialmente dal monachesimo. Ivi infatti fin dai gloriosi tempi dei santi padri fiorì quella spiritualità monastica, che si estese poi all\’occidente e dalla quale, come da sua fonte, trasse origine la regola monastica dei latini e in seguito ricevette ripetutamente nuovo vigore. Perciò caldamente si raccomanda che i cattolici con maggior frequenza accedano a queste ricchezze dei padri orientali, le quali trasportano  tutto l\’uomo alla contemplazione delle cose divine.  Tutti sappiamo che il conoscere, venerare, conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali è di somma importanza per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani d\’oriente e d\’occidente”.

 

3- L’identità disciplinate orientale

 

  Infine, l’identità dell’oriente cristiano viene individuata anche nel patrimonio di disciplina canonica. Così lo sintetizza il Vaticano II (UR 16):

  

  Inoltre fin dai primi tempi le Chiese d\’oriente seguivano discipline proprie, sancite dai santi padri e dai concili, anche ecumenici. E siccome una certa diversità di usi e consuetudini, sopra ricordata, non si oppone minimamente all\’unità della Chiesa, anzi ne accresce il decoro e non poco contribuisce al compimento della sua missione, il sacro concilio, onde togliere ogni dubbio, dichiara che le Chiese d\’oriente, memoria della necessaria unità di tutta la Chiesa, hanno facoltà di regolarsi secondo le proprie discipline, come più consone all\’indole dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle anime”. Ciò implica una legittima autonomia amministrativa e decentralizzazione delle Chiese orientali. In questa prospettiva è di particolare importanza la dichiarazione del Vaticano II nel descrivere il ruolo della Sede Romana nel primo millennio: “Le Chiese d’oriente e d’occidente hanno seguito per molti secoli una propria via, unite però dalla fraterna comunione nella fede e nella vita sacramentale Sede romana moderante, di comune consenso accettata, qualora fra loro fossero sorti dissensi circa la fede e la disciplina” (UR 14).

 

  E il decreto conciliare conclude: “La perfetta osservanza di questo principio tradizionale, invero non sempre rispettata, appartiene a quelle cose che sono assolutamente richieste come previa condizione al ristabilimento dell\’unità” (UR 16).

  

    Conclusione sull’identità orientale

 

  La storia dell’identità orientale è caratterizzata dal profondo senso di tradizione. Malgrado le vicende storiche, le Chiese orientali hanno conservato con cura gelosa la teologia simbolica biblica, a lungo esplicitata dai Santi Padri; custodiscono il senso del Mistero ineffabile e indicibile, che circonda e connota l’azione liturgica e l’osservanza dei sacri canoni emanati dai Santi Padri; nei testi e nello spirito mantengono il senso della liturgia come dossologia mistica incessante, come richiesta di perdono e come epiclesi ininterrotta con formule insieme ricche e suggestive. Esse vantano una spiritualità direttamente attinta alla Sacra Scrittura e, di conseguenza, una teologia meno soggetta a categorie più direttamente razionali. Per ragioni storiche e culturali esse hanno mantenuto una più immediata continuità con l’atmosfera spirituale delle origini cristiane, prerogativa che sempre più di frequente anche l’occidente considera non segno di staticità e ripiegamento ma di preziosa fedeltà alle fonti della salvezza.  Ovviamente ciò non esclude la novità e, di fatto, nessuna Chiesa, orientale o occidentale, ha mai potuto sopravvivere senza adattarsi continuamente alle mutevoli condizioni di vita. Ma mette in guardia da ogni indebita e inopportuna precipitazione, richiedendo che qualsiasi eventuale modifica sia non solo ben maturata, ma anche ispirata e conforme alle genuine tradizioni. Genuine tradizioni non significa “tradizionalismo” e staticità. Per evitare ciò, le Chiese orientali hanno oggi bisogno di “aggiornamento” e rinnovamento per rispondere alle tante sfide della modernità. L’esperienza della Chiesa latina può essere punto di ispirazione senza mimetismo irrazionale.

 

  Dobbiamo anche ammettere che il pericolo della perdita della propria identità di orientali cattolici ed ortodossi si presenta particolarmente in un tempo come l’attuale, caratterizzato da grandi migrazioni dall’Oriente verso terre ritenute più ospitali, di prevalente tradizione latina e protestante. Queste terre di accoglienza possono essere arricchite dal patrimonio proprio degli orientali che vi si stabiliscono, sicché la conservazione di tale patrimonio e identità va sostenuta ed incoraggiata non solo dai pastori orientali ma anche da quelli latini dei territori di immigrazione, perché mirabilmente esprime la ricchezza variopinta della Chiesa di Cristo. C’è però il rischio che gli orientali, sradicati dalle proprie terre e dalle loro proprie Chiese madri, siano alterati nella propria tradizione. Ecco perché i Patriarchi cattolici orientali con le loro Gerarchie auspicano una loro maggiore presenza in mezzo ai milioni di loro fedeli sparsi oggi nel mondo, muniti di potestà che li permette di sostenerli con mezzi pastorali efficaci a non perdere la loro identità.

 

    Il Vaticano II, OE 4 e 6, ricorda agli orientali di mantenere dovunque, in quanto è possibile,  il proprio rito e la propria identità, e non  devono introdurvi mutazioni, se non per ragione del proprio organico progresso.

  

   Nella sua ultima Esort. apost.  Post-sinodale Pastores Gregis  (16 ott. 2003) sul ministero del Vescovo, Giovanni Paolo II, adottando la Propositio 21 e la Propositio 22  della Xª Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ott. 2001), riserva un’attenzione tutta particolare alle Chiese cattoliche orientali, tornando a considerare le venerande e antiche ricchezze delle loro tradizioni, le quali costituiscono un tesoro vivo che coesiste con analoghe espressioni della Chiesa latina. Le une  e le altre insieme illuminano maggiormente l’unità cattolica del Popolo santo di Dio. Non c’è dubbio, poi, che le Chiese cattoliche d’Oriente, in ragione della loro affinità spirituale, storica, teologica, liturgica e disciplinare  con le Chiese ortodosse e le altre Chiese orientali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica,  hanno un titolo specialissimo per la promozione dell’unità dei cristiani, soprattutto dell’Oriente. E ciò sono chiamate a fare, come tutte le Chiese, con la preghiera e con l’esemplare vita cristiana; inoltre, come loro specifico contributo, esse sono chiamate ad aggiungere la loro religiosa fedeltà alle antiche tradizioni orientali” (n. 60), quantunque esse debbano essere alquanto adattate alle odierne condizioni (cf. OE 9).

 

Roma, 4 novembre  2003.